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Quante volte hai ascoltato una canzone pensando che fosse scritta per te? Succede continuamente. La ascolti e la canti, e più la ricanti più te la senti addosso, plasmandone il significato perché ti vesta a pennello. Il fenomeno è più frequente nell’adolesCenza, quando le tempeste ormonali e le turbe sentimentali ti sparano sulle montagne russe: un giorno ti senti al settimo cielo, quello dopo stai da schifo. Dal Blue Tornado alla Blue Whale.

Un colpo di fulmine, una cotta da capogiro, una rottura burrascosa… non importa. Accendi la radio e il pezzo parla di te. Ma che ne sa l’autore? Mi spia? Controlli lo smartphone e per un attimo ti sfiora l’idea che dietro quella minicamera si nasconda un Grande FrAtello dell’industria musicale, intento a buttar giù febbrili appunti ad ogni inciampo o sbandata che prendi. Vabbé sticaz Ma in fondo, farebbe differenza? Già ti profilano ovunque, dal supermercato al web, alla palestra. Fai spallucce e alzi il volume, chissà che il pezzo non ti riveli qualcosa del tuo futuro?

Qualcuno suggerisce di memorizzare nella rubrica del cellulare, sotto l’abbreviazione standard ICE (In Case of Emergency), il numero della persona che vorresti fosse informata se ti trovi coiNvolto in un incidente. Potrebbe aiutare i soccorritori. Ho un’altra idea: scegli una canzone che ti esalta, e che ti rende felice. Caricala nel tuo lettore, potrebbe aiutare te.

La canzone giusta al momento giusto ha un potere enorme: può darti la scossa per voltare pagina se la tua vita si è incartata in un capitolo buio, può suggerirti l’opzione giusta o quella sbagliata, farti riconsiderare una decisione avventata. Può persino salvarTi sull’orlo del precipizio, come sostiene Max Gazzé. Ricordalo se è il cinquantesimo giorno e ti trovi sulla cima di un palazzo: è il momento di scorrere la playlist fino al tuo pezzo ICE, e di recuperare la gioia di vivere.

Nel blog celebro spesso il risvolto positivo degli errori, opportunità di approcciare un problema con occhi diversi. Da un salto nel buio può scaturire un’occasione vantaggiosa: osAre un approccio con il ragazzo o la ragazza che ti piace, avviare un’attività, trasferirti alla ricerca di un nuovo inizio, sono scelte che potrebbero dare una svolta positiva alla tua vita.
Nulla di buono può invece scaturire da un salto nel vuoto, da cui non c’è ritorno. Il coraggio è una dote indispensabile, ma va canalizzato nella giusta direzione. Volare va bene, ma in senso figurato, come suggerito dall’improbabile featuring di Rovazzi e Morandi: trovando ogni giorno un motivo per sorridere e divertirci.

Lasciamoci contaminare da tutto quanto di bello e positivo ci circonda: il blu e la malinconia lasceranno spazio ad emozioni di tutte le sfumature dell’arcobalena.

Dentro lo zaino

Oggi, ricordando il mio plurirattoppato glorioso zaino Microchip, ho sguinzagliato Google alla ricerca dei modelli più in voga degli anni 90. Imbarcarmi nella ricerca è stato un errore: ho buttato un’ora di tempo, sottraendolo ad attività più utili, e senza trovaRe uno straccio di immagine che documentasse l’esistenza di quella mitica reliquia.

L’effetto nostalgia è un impulso potente: in stato di ipnosi ho passato in rassegna una galleria psichedelica di zaini Seven e Invicta. Chiunque abbia frequentato in quegli anni scuole di ogni ordine e grado, in quelle improbabili tinte evidenziatore declinate in grafiche a casaccio, ci ha lasciato il cuore.

I modelli erano essenziali: grande vano per il materiale scolastico e tascone anteriore spappola merendine. Tele immacolate nelle mani di artisti estrosi, al secondo quadrimestre c’era più inchiostro su quegli zaini che sulla pelle di Fedez: le ragazze vi appuntavano le iniziali dell’ultima cotta, si scambiavano dediche giurandosi etErna amicizia e trascrivevano passaggi dalle canzoni preferite. I ragazzi, più sobri, si limitavano in genere a professare la loro fede calcistica.

Hai presente il classico spot del detersivo per pavimenti? Incrostazioni alte due dita che neanche a Pompei dopo l’eruzione vulcanica, lasciano il posto al candore abbagliante dopo una fugace passata di straccio. Ebbene, ricordi sepolti da vent’anni sono riaffiorati di colpo, vividi come non mai. SfoGliavo le immagini degli zaini sul monitor e rivedevo i volti dei compagni di scuola che li avevano indossati.

Eravamo timidi scolaretti delle elementari, con i pugni stretti intorno ai grandi spallacci. Ad ogni passo lo zaino, enorme, rinculava colpendoci l’incavo delle ginocchia, conferendo la tipica andatura dinoccolata. Sussidiario e quadernone, maestro unico. Il bambino che per primo perse il papà aveva lo zaino blu e verde. Per molti fu uno shock elaborare la possibilità che un lutto tanto drammatico potesse colpire proprio noi.

Crescevamo in fila per due: tartarughine dai gusci variopinti a predominanza rosa shoking e verde fluo. Il mio amicone con lo zaino giallo e verde cadde e si ruppe gli incisivi. Alle medie ammiravo la compagna con lo zaino fucsia a fantasia leopardata per i suOi brillanti risultati scolastici e i capelli biondissimi. Gli zaini – compagni insostituibili della nostra quotidianità – apparivano meno oversize, attraversando indenni le tante mode passeggere: ciuccini, schede telefoniche e collane tatoo.

I ricordi più indelebili sono quelli dell’adolescenza. Coincidono con quelli della progressiva, solida e duratura affermazione della personalità. È il periodo in cui diventiamo veramente noi stessi, e la nostra memoria fissa quei momenti con una dovizia di particolari, colori, suoni e profumi che non ha eguaLi. Alcuni oggetti ci identificano in maniera univoca, anche a distanza di anni: ricordo l’Alcatel di Sabrina, l’orologio di Lorena, il maglione giallo di Simone; ma sono stati gli zaini scolastici i veri totem dell’infanzia e dell’adolescenza dei “millenials per un pelo”.
Alle superiori, per fare i fighi, portavamo gli zaini su una spalla sola, antesignani dell’Ispettore Catiponda. Molti di noi non hanno mai recuperato la simmetria, e conservano intatte le emozioni, le canzoni e la scoliosi di quegli anni.

Gli antichi ritenevano che la sede della memoria fosse nel cuore. Oggi sappiamo che non è così, ma l’etimologia della parola “Ricordare”, dal latino Re- e Cordis (cuore), suggerisce in maniera molto poetica come rivivere i ricordi li faccia ritornare dalle parti del cuore. Al ritmo dei battiti viaggiamo a ritroso nel tempo, riportando alla luce vissuti, paure e desIderi solamente nostri, riuscendo ad emozionarci come la prima volta. A conti fatti, il tuffo nel passato scaturito dalla mia ricerca non è stato tempo perso. Un’emozione non lo è mai.

La voce e il buio

Si dice che non si decida di diventare un attore o un doppiatore. Semplicemente, lo si è già. Nel mestiere che non ho scelto di praticare, all’interno di una stanza buia con la sola compagnia di un copione, uno schermo e un microfono davanti a sé, l’errore è all’ordine del giorno.

Si sbaglia nell’articolare una parola, ci si perde tra i labirinti semantici di righe contorte e frasi spesso difficili da pronunciare, non si riesce a rispettare il labiale di chi si sta doppiando. Un attore ride, piange, si emoziona e si dispera per noi e per se stesso. Ci consegna una vita che non è la nostra e non è la sua. Persino il suo silenzio, tra una battuta e l’altra, naviga su frequenze che raramente riusciamo a percepire. Cerca il suo equilibrio e, molto spesso, è proprio il non trovarlo a consacrarne il genio.

“Buona, andava bene! Ma sei un po’ scivolato sul finale, ne facciamo un’altra per sicurezza!”. Questo e molto altro è ciò che un direttore (il regista nel campo del doppiaggio) si trova a dover pronunciare varie volte nell’arco di una giornata lavorativa. Eppure, sa benissimo che la seconda prova – seppur magistrale nella musicalità e nell’articolazione – perderà quella scintilla di spontaneità cui il doppiatore si era affidato all’inizio. Semplicemente, non avendo attivato i centri razionali del cervello, per un attimo infinitesimale era stato egli stesso quella battuta.

Capita spesso, soprattutto in film molto vecchi, di imbattersi in doppiaggi non perfetti stilisticamente: voci sporche, audio grezzo, stacchi troppo marcati. Il suono però, di per sé, non esiste senza una fonte ricettiva a percepirlo: ecco perché, in una lavorazione perfetta stilisticamente, il nostro cervello ci porterà a sentire la mancanza di quell’errore, la parte più umana dell’attore.

La memoria acustica, similmente a quella fotografica, va a ricercare suoni a noi familiari che sappiano calmarci, donarci conforto, benessere e protezione. Il medesimo procedimento si verifica anche quando è lo spettatore stesso a cadere in un abbaglio: quanti sarebbero disposti ad accettare che, nel film “The Mask”, il tormentone non fosse “spumeggiante” bensì “sfumeggiante” (dall’inglese “smokin’”)? Che la regina cattiva di Biancaneve non dicesse “specchio, specchio delle mie brame” ma “specchio, servo delle mie brame”? Che la “supercazzola” di “Amici miei” in realtà fosse una “supercazzora”?
L’errore è parte della nostra biologia, è ciò che ci rende umani: ci distingue da un indefettibile orologio atomico che perde solamente un secondo ogni cinque miliardi di anni ma di cui nessuno avrà mai memoria.

Ci impegniamo a costruire macchine efficienti e infallibili: nel lavoro proviamo a emularle, a sbagliare il meno possibile, a essere perennemente performanti e inattaccabili. Dimentichiamo che nella nostra vivace fantasia letteraria ogni robot futuristico lotta con le unghie e con i denti con viti e cingoli per poter diventare umano: chi non ricorda l’emozionante finale de “L’uomo bicentenario”, in cui l’androide Andrew preferisce morire da essere umano piuttosto che vivere per sempre come macchina?

L’errore ci eleva, così nella recitazione come nella vita: d’altronde, anche il miglior comico del mondo non riuscirebbe a far ridere alcuno senza aver prima conosciuto la sofferenza egli stesso.

Alessandro Bianchi, doppiatore e speaker

Realtà aumentata

Trovo sul tavolo la lista della spesa: “frutta, latte, cereali…”. Con il senno di poi, ci avrei scritto: “Buongiorno signor Spiego l’ego. La sua missione, se dovesse accettarla, riguarda la spesa settimanale. Se venisse catturato o uCciso, il governo negherà di essere stato a conoscenza dell’operazione. Questo messaggio si autodistruggerà tra cinque secondi”.

Supermercato. Le porte scorrevoli si richiudono alle mie spalle.

Buio in sala.

Il reparto ortofrutta è una giungla: decine di impiegati riforniscono ceste e scaffali, i clienti sbraitano intralciandosi con carrelli e carrellini. In un angolo, la cassetta delle banane in offerta avvalora le tesi di Darwin e scatena violenti istinti primordiali. Devo pesare delle zucchine, ma aggiudicarsi una bilancia è un gioco di abilità e studio dei tempi degno dei trabOcchetti di Indiana Jones. Abbasso la tesa del mio Fedora immaginario, imbraccio l’iconica frusta e mi lancio nella gimkana. Procedo a zigzag tra ostacoli, ascelle commosse e bancali di merce da etichettare. Una voce dopo l’altra la lista si assottiglia, finché l’ultimo espositore mi separa dall’area delle casse. Chiudo gli occhi e compio il balzo della fede.

L’avventura cede il passo all’horror. Mi trovo immerso in un carnaio infernale degno di Saw l’enigmista. Nel macabro tetris di corpi e carrelli, file sbilenche e tormenti, si consuMano violente torture psicologiche. Un cliente annebbiato ruota il polso e dà gas al carrello: rivive le impennate con il Fifty in cerca di una via d’uscita. Si procede a rilento, manca la coordinazione cliente-cassiera nell’afferrare la merce scagliata nello scivolo metallico. I più deboli soccombono alla pressione e sudando stipano gli articoli nei sacchetti in ordine casuale, versando lacrIme silenziose per le uova finite sotto il fustino del detersivo, che l’importante è togliersi da lì. A casa faranno la conta dei danni.

Più in là, uno spaghetti-western all’apice della tensione: in un’inquieta atmosfera alla mezzogiorno di fuoco, due signore conformi allo stereotipo della casalinga sono affiancate in un’unica fila. Un’inquadratura a piano americano, tagliata all’altezza delle ginocchia, coglierebbe la drammaticità della scena. IstintivameNte porto la mano alla fondina del mio illusorio cinturone. So come funzionano queste cose: dal duello alle bottigliate è un attimo, e il pianista ci resta secco. Una delle signore infila la mano nella borsa e stringe la sua carta fedeltà. L’altra svaga fingendo interesse per gomme da masticare e rasoi quadrilama, guadagnando qualche centimetro con il suo carrello. Sergio Leone proporrebbe un primissimo piano: minacciosi sguardi in tralice, pieghe di espressione, fronti corruGate. I pugni stringono la presa sui carrelli.

Il sottofondo di Morricone viene bruscamente interrotto da uno scroscio metallico, proprio un paio di persone davanti a me. All’atto del pagamento, un anziano signore ha rovesciato una quantità di rame sufficiente a forgiare quattro paioli da polenta. È il dramma: alle mie spalle si levano ululati di autentica disperazione. In condizioni normali anch’io mi lascerei andare allo sconforto, ma la prendo sportivamente: sono in ferie, non ho fretta, e la recente iscrizione al corSo di yoga – convenuta in un moto di riconoscenza verso il mio istinto – mi ha pervaso di armonia e coscienza zen.

Sorrido in solitudine e noto il responsabile del punto vendita che, mento sollevato, effettua una scansione del serraglio. Cosa gli passa per la testa? Mi immergo nel suo campo visivo e mi ritrovo nel casco di Ironman. Un’interfaccia intelligente sOvrappone informazioni utili in realtà aumentata: “Anziano appassionato di numismatica: tempo stimato di pagamento, 4 minuti”. “Mamma con bimbo turbolento: i capricci la distrarranno: 3 minuti”. “Trentenne maschio, tonno in scatola e surgelati: single. Con cassiera attempata, check-out in 45 secondi”. E così via, ordinaria amministrazione. Finché J.a.r.v.i.s non lancia un alert di livello 3: “Esemplare di milanese imbruttito in pensione: si lamenterà della coda che ha contribuito a rallentare e chiederà conto di ogni coupon consegnato insieme allo scontrino. Quando potrò usarlo? Posso cederlo a mio genero? Quando mangerò questi cracker, l’incarto andrà nella plastica o nell’indifferenziata?”

Colgo la scintilla nello sguardo del responsabile. Si volta e parte ad ampie falcate in direzione del suo gabbiotto. Con calma esco dalla fila e mi sistemo nell’unica cassa chiusa, ripOnendo sul nastro i miei articoli. Solo a questo punto il microfono annuncia l’imminente apertura della cassa 5. Nemmeno il segnale di Massimo Decimo Meridio avrebbe scatenato una tale devastazione: il clangore dei carrelli, usati per tagliare la strada agli avventori rinvenienti dalle retrovie, sovrasta lo scalpiccio frettoloso. È una lotta per la sopravvivenza, cui nemmeno i più deboli si sottraggono. In una scena surreale, vedo letteralmente decollare una signora sulla settantina, con il braccio inspiegabilmente teso davanti a sé nella posa di Superman, che disegna una perfetta parabola nell’aria per atterrare rovinosamente su una fila di carrellini-trolley. Un silenzio assordante ferma il tempo, finché un imbarazzato “Sono inciampata” restituisce il battito cardiaco alle persone vicine, che si prodigano per ricomporla. Lei si saggia il femore, pare che abbia retto.

Lieto fine, titoli di coda.

Sconvolto, ma divertito dall’esperienza, guadagno il parcheggio e sistemo i sacchetti nel portabagagli. È finita, penso. Ma c’è un’ultima easter egg, introdotta dal ruggito di un motore tirato a 5.000 giri. Mi volto di scatto aspettandomi la gang di Toretto impegnata in qualche numero alla Fast and Furious. No. È un nonnino alla guida di un residuato bellico una Lancia Thema dell’88 impegnato a parcheggiare in retromarcia. Ha dimenticato di staccare la frizione.

Luci in sala.

Adoro la magia del cinema. Dai colossali impianti multisala, alle antiquate sale ammorbate dalla muffa e dall’umidità, se il film è quello giusto, l’esperienza riesce sempre a coinvolgermi. La tecnologia dell’intrattenimento si evolve rapidamente: pellicole IMAX, effetti 3D e audio digitale promettoNo emozioni sempre più immersive, ma non c’è storia. Non facciamo l’errore di cercare esperienze reali affondati nelle poltroncine. Viverle davvero è enormemente più divertente!

Il tango, una sintonia senza errori

Il timore di sbagliare è una presenza costante nella nostra vita: lo percepiamo nelle decisioni importanti, ma anche nelle piccole scelte di tutti i giorni. Ne subiamo l’influenza, tanto da non sentirci mai veramente liberi. Esistono però alcune eccezioni, e vorrei dare il mio contributo parlando proprio di una di esse: il tango argentino. La mia passione, nonché il mio lavoro.

Il tango è una disciplina basata sulla connessione e l’improvvisazione di due persone, due ballerini, che per qualche minuto si uniscono per danzare sulle malinconiche note argentine.
Il tango è pura ispirazione: non ha schemi, sequenze di passi prestabiliti o coreografie da ricordare… Ballare il tango vuol dire “creare” passo dopo passo, insieme all’altra persona, percependo il corpo del partner, ascoltando la musica e gestendo lo spazio. Niente è giusto, niente è sbagliato. Tutto è “vero” perché accade lì, in quel momento e va come va: nessun ballo potrà mai essere uguale a un altro, nessun uomo potrà ballare allo stesso modo con diverse donne, e viceversa.

Diceva il mio primo maestro di tango: “Non abbiate fretta di giudicarvi! Non esiste l’errore. State nella difficoltà che incontrate, cercando di capire che non è il passo ciò che conta”. Parole sante. Fermarsi al passo vuol dire inchiodarsi e perdere di vista la cosa più importante per ballare questa danza: l’ascolto, la connessione e dunque il lasciar fluire.
Solo dimenticandoci della possibilità dell’errore riusciamo a creare! Basta ascoltare, e lasciarsi andare. E come per magia… tutto andrà bene, il ballo sarà leggero, godibile e si avrà voglia di ballare ancora e ancora.

Laura A., ballerina e insegnante di tango argentino

attraverso lo specchio

Ogni persona che incrocia il nostro cammino è diversa da tutte le altre che conosciamo, con il suo bagaglio di esperienze, i suoi modelli comportamentali e il suo modo di comunicare. Questa infinita varietà di sfaCcettature mi ha sempre intrippato affascinato: da piccolo mi divertivo ad osservare le persone cercando di indovinarne i pensieri o prevederne le scelte. Dalle amicizie del cortile alle fugaci frequentAzioni estive, ogni nuova conoscenza era una stimolante occasione di scoperta. Tiravo a indovinare quale sarebbe stata la risposta alla domanda che avessi posto, o che cosa passasse per la testa di chi avevo davanti.

Intorno alla fine degli anni ’90 ho assunto l’impegno di modeRare una chat room riservata agli under 21. Accoglievo i nuovi arrivati fornendo indicazioni di massima sul funzionamento di quell’ambiente virtuale, preoccupandomi di monitorare il traffico alla ricerca di eventuali utenti malintenzionati. Più dei provocatoRi e delle teste calde, l’attenzione era concentrata nell’individuare profili falsi e potenziali adescatori. Quanto quell’esperienza abbia affinato le mie doti investigative non saprei dirlo con certezza, ma una volta imparato a distinguere impercettibili segnali di incongruenza nel rapido flusso di testo, “leggere” le persone mi è parso molto più semplice.

Le regole d’ingaggio del contatto vis-à-vis non lasciano scampo: non c’è una tastiera dietro cui nascondersi, né il tempo per riflettere a lungo su ciò che si sta per dire. Gli scambi sono veloci, e ci si guarda in faccia: ad un dialogo più spOntaneo si accompagna l’enorme valore aggiunto del linguaggio non verbale. Per decifrare ciò che l’interlocutore ci sta trasmettendo – il più delle volte in maniera totalmente inconsapevole – abbiamo a disposizione la parte immersa dell’iceberg: gesti più o meno evidenti, micro espressioni del voLto, movimenti degli occhi. A volte è sufficiente concentrarsi su questi ultimi per comprendere chi ci sta di fronte. Le pupille si dilatano o si contraggono, lo sguardo fugge seguendo i capricci della mente, gli occhi guizzano svelando alcuni processi cognitivi. Dice la verità? Sta ricordando? Che cosa prova in questo momento?

L’appellativo di “specchi dell’anima” è riduttivo. Sono convinto che nelle cripte e nei solchi dell’iride sia incisa la nostra quintessenza. Un’analisi attenta può rivelare di una persona più di quanto si possa immaginare. Prova! Ma se vuoi giocare ad Alice, meglio assicurarti ad una fune per il ritorno: non conosci la profondità che troverai finché non sarai immerso nell’abisso. Sottovalutare il magnetismo e le impLicazioni di un lungo sguardo ricambiato potrebbe rivelarsi un errore. Potenzialmente, il più bello della tua vita.

Dedicato a (S)te

Sogni e amnesie. Sono le risorse più abusate da scrittori e sceneggiatori senza fantasia: ogni volta che mi imbatto in uno di questi espedienti narrativi mi viene il latte alle ginocchia. Naturalmente ce l’ho con la mancanza di immaginazione e con le scorciatoie facili, non con i sogni, che trovo fantastici.

Ho la fortuna di essere un onironauta. Significa che, in determinate circostanze, acquisisco la consapevolezza di trovarmi in un sogno, riuscendo a cambiarlo a mio vantaggio. In genere funziona così: se percepisco che la situazione è assurda, noto elemenTi irreali o mi trovo in pericolo imminente, scatta una specie di meccanismo di protezione. La mia razionalità giunge in aiuto e mi siedo alla regia, proseguendo l’esperienza in un sogno lucido. Nella mia personale Matrix sono libero di affrontare ogni antagonista, abbattere gli ostacoli e raggiungere qualunque obiettivo, vincolato solo dai limiti – peraltro ancora inesplorati – della mia fantasia.

È notte, nel letto i nervi cominciano a distendersi. Guardo un po’ il buio, schiarito dai lampi intermittenti del led che dal soggiorno segnala una temperatura esterna inferiore ai 3 gradi. Si sta bene, sotto le coperte! Chiudo gli occhi e mentre il pensiero vaga libero tra gli avvenimenti della giornata e qualche preoccupazione, cedo all’abbraccio di Morfeo.

Con un guizzo l’omino del cervello imbraccia un cestello e inizia a correre di qua e di là, eccitato come un concorrente nella dispensa di Masterchef: “Profumi e ricordi di quella vacanza romantica, un pizzico di trauma infantile, una spolverata di nonsense…”. Tra tanto ben di Dio finisce con l’infilare nel paniere anche roba completamente fuori tema e quando raggiunge concitato la postazione, immancabilmente, si accorge di aver dimenticato l’ingrediente principe: “Nooo! Lo scalogno! La coerenza!”

Il mio sogno tipo è un minestrone impazzito: più audace dell’ultima invenzione di uno chef stellato, più “fusion” di un ristorante cinese che propone la parmigiana di melanzane. Può essere ambientato nella vecchia soffitta dei nonni, nell’anno 2024, con affaccio sugli Champs Elysee, sovrastati dall’astronave di Indipendence Day con il logo di Ehuè. Mi diverto un sacco!

Per il paradosso della rana bollita, però, non riesco a rendermi conto di vivere un sogno se vengo calato piano piano nella scena. Così, se le incongruenze e le storture si presentano poco alla volta, o le emozioni preValgono sulla logica, l’allerta non scatta e mi trovo sempre più coinvolto in quella che percepisco come un’esperienza reale.

È sera, sto percorrendo il viale di un ospedale. Provo un misto di angoscia e preoccupazione, perché sto andando a trovare una cara amica. Stanza 26-ET. Strana numerazione, ma non ci penso: voglio raggiungerla in fretta. Salgo e scendo scalini, mi addentro in un dedalo di corridoi e cunicoli sempre più sinistri. La conosco dalle elementari. Confusi cartelli pieni di frecce indirizzano ai reparti, cerco di orientarmi, la 26-ET dev’essere da questa parte. Mi torna alla mente un ricordo prescolare: una bimbetta di un metro o poco più gioca nel cortile. Suo padre ha affittato un garage nel nostro condominio. Ha dei grandi cani, mi fanno un po’ paura. Una scala più piccola si separa da quella principale, e scende in un interrato da brivido: luci al neon sfarfallano ronzando, fa freddo. Seguo i tubi malconci e ossidati che corrono lungo il corridoio. A scuola stava sempre con l’altra bambina, dalla pelle bianca bianca e i capelli neri neri. Oggi sono entrambe mamme. Una flebile luce dietro un angolo rivela un’intercapedine all’interno del quale hanno sistemato un lettino. Stanza 26-ET. Eccola! Sola e tremante, ha le spalle nude e solo un lenzuolo sdrucito a ripararla dal freddo. Un passerotto caduto dal nido, emblema della fragilità. C’è un termostato: lo regolo e in un attimo la temperatura si fa più gradevole. È contenta di vedermi, non parliamo della ragione del suo ricovero, che realizzo di non conoscere, ma delle cose belle che ci uniscono. Ricordiamo tanti aneddoti divertenti, solo nostri: pullman, strane persone affacciate ai balconi, scuse rivolte ad un albero… e ridiamo insieme. Quando la penombra di quella stanzetta tetra e umida mi ripiomba nel magone, i toni si fanno più seri. Le racconto dell’ammirazione che ho di lei: intelligente, forte, determinata. Negli ultimi anni ha saputo reagire alle avversità in un modo che mi ha davvero colpito. Penso spesso a lei, e anche se non ci sentiamo per lunghi periodi, per me è un modello. Lei si commuove. Anch’io.

Sono sveglio. Ho bisogno di qualche minuto per elaborare le emozioni profonde che ancora mi scuotono. Commetto spesso l’errore di dare per scontate amicizie e relazioni: l’affetto, la stima, la riconoscenza che nutro nei confronti delle persone che mi circondano me la tengo dentro, convinto che – in fondo – loro sappiano già. Non dovremmo precluderci la possiBilità di esprimere la nostra approvazione esplicitamente, fornendo alle persone che apprezziamo le conferme positive che meritano. O le osservazioni critiche più costruttive.

Il cuore non mi dà pace finché non chiamo l’amica di sempre per ribadire nella vita reale quanto confidatole poco prima. La vita le ha riservato molte gioie, ma l’ha anche messa alla prova presentandole il conto con dure sfide da affrontare ogni giorno. Non è sola: può contare su una splendida famiglia. Ma una sincera testimonianza di profondo affetto può fornire uno stimolo in più per affrontare la giornata con un sorriso.

Il risvolto positivo di questo errore? Siamo induriti dal peso della routine quotidiana, i rapporti interpersonali tendono ad essere piuttosto freddi e il filtro degli smartphone può allontanarci gli uni dagli altri. Saremo pure colpevoli di aver trascurato alcuni affetti, ma nel momento in cui rimediamo facendo un passo sincero in direzione dell’altro, possiamo scoprirci più uniti e vicini di quanto non lo siamo mai stati. Provaci anche tu!

Iscriviti a yoga

Da studente reagivo con esplosività al suono della sveglia, sincronizzato ed organizzato come il Furio di Viaggi di Nozze. Azioni e tempi erano pianificati meticolosamente: i calzini (ultras) pronti a fianco dell’orologio, gli indumenti allineati nel giusto ordine, il bollitore sul piano cottura e la tavola sobriamente imbandita dalla sera prima con stoviglie da colazione e biscotti. Con gesti sicuri e decisi afferravo il mazzo di chiavi, il portafoGli, la giacca. Al momento di uscire di casa, un fugace sguardo al cielo era sufficiente per sentenziare che mi sarei lasciato la perturbazione alle spalle nei pressi del Ponte del Costone.
Dormire un quarto d’ora in più al mattino poteva fare la differenza tra una giornata affrontata da leone e una vissuta da pecora zombie. Facevo sempre tardi lavorando a qualche progetto grafico, coltivando la mia relazione d’amore a distanza o girovagando per il web.

Qualche anno dopo, faccio ancora le ore piccole: lavorando a qualche progetto grafico, coltivando la mia ex relazione d’amore a distanza – ora evoluta in matrimonio – o scrivendo sul blog. Ho un maggiore controllo sull’impulso al cazzeggio, ma la mattina ho i riflessi appannati. Al risveglio non somiglio più al riuscitissimo personaggio di Verdone, ma al più tragico Fantozzi. È come nei videogiochi: i primi schemi sono facili, perfino i mostri di fine livello non impegnano granché. Con automatismi sicuri e collaudati si avanza in scioltezza. Ora però siamo una famiglia con due bambini (ora addirittura tre n.d.r.): ci sono imprevisti e probabilità che nemmeno al Monopoli. Con maldestra appRossimazione mi destreggio tra le pacche amorevoli con le mani impastate di latte e biscotti, la cacca a sorpresa e il quizzone: “questa mattina si dispererà perché non voleva la tazza blu o perché la voleva assolutamente?”. Lì non puoi prepararti. È culo.

Ma il superboss del livello colazione è l’allineamento delle lune storte, marcato in rosso sangue anche nel calendario Maya. Lo capisco subito, appena si accende la luce della cameretta e partono gli strilli. Respiro. Chiudo gli occhi e rivivo le scene efferate di Siamo fatti così: se mi lasciAssi prendere dal nervoso, in un attimo un trombo mi occluderebbe le arterie. Scaldo il latte, mente l’istinto insiste “Iscriviti a yoga!”.

Stamattina ho fatto tardi. Raggiungendo l’ufficio con mezzi propri, non posso neanche giocarmi la carta “autobus dal balcone”.

Non so come, ho commesso un grave errore, affrontando una curva a velocità troppo elevata. La strada è in discesa e un lieve sobbalzo unito all’umidità deve aver causato l’improvvisa perdita di aderenza. L’auto ha sbandato violentemente, perdendo completamente l’asse posteriore. Una scarica di adrenalina altrettanto violenta mi ha precipitato in una scena al bullet-time, dandomi l’impressione di vivere un tempo rallentato. Ho ignorato l’impulso di sterzare bruscamente verso l’interno, compiendo un veloce controsterzo ed evitando il testacoda. Il guardrail era davvero vicino, ma ho atteso con tutti i sensi allertati il momento in cui le gomme posteriori avessero recuperato aderenza per riallineare lo sterzo e dare gas. Stavo ancora imbardando, e ho realizzato di essere sottocoppia: l’avantreno non avrebbe compiuto il balzo necessario a togliermi da quella situazione, così ho scalato bruscamente e pigiato sull’acceleratore. Ho recuperato il centro della carreggiata e domato un furioso effetto pendolo.

Il resto del viaggio è stato un’unica, complessa riflessione sull’imprudenza compiuta, sulle conseguenZe che avrebbe potuto avere e sull’efficacia dell’istinto nel tirarci fuori dai guai. Non ho mai frequentato corsi di guida sicura. Ho delle nozioni di meccanica e amo guidare, la mia auto è piccola ma sportiva, ne curo la manutenzione. Ma la differenza oggi l’ha fatta l’istinto: in poche frazioni di secondo ho gestito una situazIone complessa compiendo una serie di azioni senza averne la consapevolezza. Se avessi atteso i tempi del ragionamento, probabilmente sarei piombato nella strada sottostante e forse “Divagare nella giusta direzione” sarebbe stato l’ultimo capitolo del blog.

Ci sono errori che non andrebbero mai commessi. Guidare con imprudenza è uno di questi, e non lo rifarò. Eppure anche da questo ho imparato molto. L’istinto è un meccanismo congenito e immutabile messo a punto da un’evoluzione durata millenni. Ci spinge, ci indirizza. È quella vocina nella pancia che a volte ignoriamo, soffocandola spesso con eccEssive riflessioni. Oggi si è meritato la mia riconoscenza, e il mio impegno a prestare maggiore attenzione ai suoi suggerimenti.

Divagare nella giusta direzione

L’auto tamarra esige un impianto stereo all’altezza e il mio, nonoStante la maggiore età, garantisce prestazioni di livello. Con un’adeguata regolazione dei bassi si rivela ottimo anche per sciogliere il catarro nei bronchi, liberando le vie respiratorie sfinite dai malanni di stagione. Essendo una persona raffinata, tendo a non abusare di questa funzione avanzata.

La reCente rottura del lettore CD ha concesso una tregua temporanea ad Annalisa, Rihanna e Ruggeri, che ho riposto nel cruscotto stremati ed afoni dopo una staffetta durata mesi. Allaccio la cintura e accendo l’autoradio: parte lo zapping compulsivo. L’indice si mUove come l’ago di un sismografo impazzito, percorrendo approssimativamente la distanza tra la Terra e la Luna nei 25 minuti necessari per raggiungere l’ufficio.

Alla radio chiedo compagnia divertente e momenti di leggerezza, perciò glisso i radiogiornali, dribblo i rosari e schivo i messaggi pubblicitari, soffermandomi solo sulle frequenze che traSmettono canzoni. Adocchiata la stazione, applico altri filtri, come in una partita a Indovina Chi: il sound è accattivante? No. Skip, skip, skip… il tormentone mi ha già saturato? Si. Skip, skip, skip… E così via. La ripetitività dei palinsesti fa il resto, e così in questo periodo incAppo spesso in due pezzi: All Night e Strade Sbagliate.

Il pezzo di Parov Stelar è una forza: un solo passaggio garantisce un paio d’ore di enerGia e buonumore. La canzone fracassa impazza sui social e negli spot in TV, e questo la renderà presto insopportabile, ma per ora la adoro. Appena la intercetto apro il vano portaoggetti lanciando cenni di intesa a Ruggeri: Senti? L’ostinato del pianofoRte è identico a quello di Contessa! E attacco: “Non puoi più pretendere di avé…”. Enrico però non appare turbato, così mi lascio coinvolgere dall’electro swing e prima di rendermene conto mi scateno in movimenti sincopati e shuffling da seduto.

La canzone finIsce un attimo prima della lussazione della spalla e il DJ introduce il nuovo pezzo di Grido e Chiara. Chi? Ascolto le voci e riconosco il fratello di J-Ax e la ragazza con il cordino sulla fronte. Le prime strofe me le perdo tra i sensi di colpa: passi ricondurre la Grispo alla treccina di cuoio, una scelta precisa per emergere dall’ultima sfornata di talent. È giovane, si farà. Ma il primo ha alle spalle una carriera dell’età stimata della seconda! I tempi sono maturi affinché le mie sinapsi lo liberino dall’ingombrante immagine del fratello.

Solo con il secondo ritornello afferro la filosofia Ehuè: scelte sbagliate – cuori infranti – notti in bianco – sono dove volevo. Bello! Con le cartilagini ancora doloranti, mi sbilancio nella mia interpretazione del testo: abbiamo tutti un percorso tracciato, con una meta e un certo numero di traguarDi intermedi, dal quale finiamo inevitabilmente per divagare. Usciamo dal seminato, compiamo degli errori. Ma se da questi sappiamo trarre esperienza, allora stiamo crescendo, e per quanto ci siamo allontanati dalla strada maestra, stiamo avanzando nella giusta direziOne. Sono dove volevo. Ah, no. È il parcheggio dell’ufficio.

Chiudere un occhio, vedere lontano

Chiudere un occhio, vedere lontano

Citazione All’inizio si ipotizzò che la mia maestra fosse un po’ svampita.
Metteva sempre BRAVISSIMA ai miei temi, eppure quando mia madre andava a leggerli, trovava un sacco di errori.
La prima volta pensò che la maestra fosse distratta.
La seconda pensò che magari non vedeva bene, visti gli occhiali che portava. La terza le telefonò per capire come mai non sottolineasse gli evidenti errori di grammatica che facevo nei miei temi.
E lei le rispose: “Signora, non lo faccia. Sua figlia quando scrive ha una grande fantasia, scrive di getto e con entusiasmo, se le facessimo notare gli errori potrebbe bloccarsi. Così invece si correggerà da sola man mano che studieremo la grammatica, senza perdere il piacere della scrittura.”
Quella maestra è diventata nel tempo una di famiglia, presente in ogni occasione speciale come una nonna saggia a cui dobbiamo tanto.
I suoi BRAVISSIMA mi hanno sproporzionatamente aiutata a non perdere il piacere della scrittura. Al punto che la scrittura è diventata la mia vita.
E io spero che questa storia possa servire a tanti adulti che hanno paura degli errori dei bambini.