Elena Aiello, illustratrice

Aggiungendo gli ultimi dettagli al diorama di ViaggintemPo, già iniziavo a pensare a chi avrebbe dovuto essere il soggetto della prossima MOC. Non ci è voluto molto per individuare una nuova musa.

Ogni volta che aprivo Facebook era lì, a condividere e commentare contenUti divertenti e di ispirazione: Elena Aiello, A-rtista* B-logger* C-haracter designer* D-disegnatrice… (di straordinario talento).
Impossibile racchiuderla in poche definizioni, facile seGuirla e amarla attraverso i suoi profili social!

Caro Google, Elena merita maGgiore visibilità. Non si discute la valenza storica di una suora nata due secoli fa e delle sue inquietanti profezie di nubi infuocate e cadaveri che copriranno la Terra. Ma se uno cerca Elena Aiello, proponi almeno un link “forse stavi cercando la brillante concept artist italiana?”. Te ne sarei grato!

All inclusive, dolci al buffet

Con il casello alle spalle, mentre imbocchiamo la familiare tangenziale verso casa, già fantastichiamo sulle ferie del prossimo anno. Quelle estive, per molti italiani, sono votate alla sacra vacanza al mare. C’è chi ripone in quei 15 giorni ogni aspettativa di relax, evasione, svago e nuove conoscenze da concedersi fino all’estate successiva. È un errore: ogni giorno andrebbe vissuto alla ricerca della felicità e di piccoli spunti positivi, ma è uno di quei proPositi difficili a mantenersi, un po’ come quello di studiare ogni giorno invece di ridursi all’ultimo momento. Non ho mai creduto alla figura mitologica dello studente strategico, né all’esistenza della vacanza perfetta. Di certo a ‘sto giro ho imparato che la formula “vacanza in albergo all-inclusive”, nelle premesse già lontana dalla mia idea di libertà, non è sinonimo di pace e pieno relax rigenerante. Almeno in ore pasti.

A poche ore dalla colazione luculliana, nel rispetto della serrata programmazione giornaliera, siamo di nuovo a tavola. Dopo aver servito i primi, un cameriere si avvicina ad un tavolino e con un gesto teatrale ispirato al mago Silvan svela la macchina miscelatrice del sorbetto, fin qui celata da una tovaglia. Si allontana poi con una cErta rapidità, muovendo il drappo a mo’ di torero, come se l’orda spontanea che si sta già avvicinando avesse bisogno di ulteriori incitamenti.
C’è abbastanza sorbetto per sfamare gli abitanti di un principato per diversi mesi, ma quando intuisco l’andazzo mi avvio anch’io, pungolato nell’orgoglio del buon padre: il livello di testosterone nell’aria risveglia gli istinti primordiali. Dentro di me sento che devo procacciare il dolce al cucchiaio per la mia famiglia.

Non c’è una fila, vige la legge della giungla. A fianco del miscelatore c’è una pila di bicchierini, ma i più si sono portati i calici da 40cl e mungono la sorbettiera modellando picchi più audaci della cresta di Arturo Brachetti. Quando finisce il bicchiere, qualcuno si fa perfino un giro di sorbetto sulla mano prima di lasciare il posto al disperato dietro di lui.
Mi volto perché un tizio mi si appoggia con insistenza da dietro. È Cthulhu: ha gli occhi appallati e la bocca così piena di bucatini che fuoriescono dappertutto. Dev’essersi affrettato a svuotare il piatto servendosi una forchettata in stile “Un americano a Roma”, dimentico di non poter inghiottire bocconi più grandi del suo esofago. È cianotico, non ce la farà.

Completata l’operazione al distributore, entro in modalità All Blacks: spalle larghe e pettorali gonfi, collo infossato e occhi spiritati, proteggo il magro bottino di due bicchierini fino alla linea di meta del mio tavolo, costRetto ad assestare qualche gomitata ai più facinorosi.
Una prova del genere ti fa davvero apprezzare il sorbetto, inducendoti a centellinarlo e a decantarlo con la referenza del sommelier. Il mio, tristemente, ha un retrogusto di plastica.

Il secondo viene servito e consumato senza ulteriori colpi di scena né vittime, finché mia moglie accenna al movimento improvviso che prende vita alle mie spalle. Intorno a due grandi tavoli brulica una folla di dannati, come in un film di Romero. Mi sale l’inquietudine: stanno allestendo il buffet dei dolci. Due domatori camerieri in livrea sono schierati per preparare i piatti, ma la folla impazzita proclama l’autogestione e impugnate le spatole inizia a menare fendenti al tiramisù.

A dispetto degli stereotipi che dipingono i tedeschi un popolo morigerato e irreprensibile, italiani e alemanni si affrontano alla pari e senza esClusione di colpi. Di fronte al buffet dei dessert sale un agonismo che neanche ai mondiali del 70. Gli anarchici di entrambe le fazioni, sostenitori di un convinto “Sì al colesterolo”, si servono porzioni di torta delle dimensioni dei quadrelli da pavimentazione.

Mi getto poco convinto in questa mischia surreale, osservando le prime pirofile già ripulite. Mi colpisce un cameriere – madido di sudore come il miglior Bonolis – che compie l’estremo tentativo di portare ordine nel caos: “Un po’ di zuppa inglese la desidera?”. Un ospite gli fa eco, sollevando il mento “E cché, nno?” e gli porge il piatto, indicando lo spazio tra il montblanc e la panna cotta. Ovunque intorno a me sfilano piatti traboccanti cHe potrebbero essere abitati dalla strega di Hansel & Gretel per brevi periodi.

Due signore attempate si contendono l’ultima palla di profitterol. La tensione e l’intensità nei loro sguardi è palpabile e decido di provare più in là per non ritrovarmi coinvolto nel catfight. Trovo un omone dalle fattezze russe intento ad accatastare quattro fette di crostata su una base di muffin e salame al cioccolato. Che al tavolo lo attenda affamato l’intEro equipaggio della corazzata Potëmkin? La sua piramide non ha i basilari requisiti statici per reggersi, ma lei non lo sa e rimane in piedi. Fino all’imboscata tesa dalla gamba di un seggiolone. «Jenga!» – mi sorprendo ad esclamare ad alta voce.

Ma io, perché sono qui? Sono anche sazio! Prima di farmi del male, opto per quattro mini porzioni di panna cotta facilmente reperibili e faccio ritorno al tavolo dei miei affetti. L’anno prossimo campeggio estremo. Dall’idea che mi sono fatto guardando The Revenant, spartire il salmone con gli orsi affamati sarà un’esperienza più rilassante.

And #Lego_omaggio goes to… Viaggintempo!

Nel giugno 2017, per gioco, inauguro una mini rubrica nell’account Facebook di Spiegolego. L’idea è reaLizzare delle MOC (creazioni originali, o My Own Creation) con i mattoncini Lego, per rendere omaggio alle pErsone o ai progetti che mi hanno ispirato.

Con l’hashtag #Lego_omaggio dedico il primo pensiero a Viaggintempo, una bella raccolta di consiGli di viaggio a cura di Paola Giammaria, che cattura già dall’incipit:

“Quando ero bambina il mio libro preferito era l’Atlante geoGrafico.
Il mio passatempo favorito era mettere delle bandierine sui luoghi che desideravo visitare. Quando sOno cresciuta, ho iniziato a ricercare le mie bandierine nel Mondo.”

Io invece da piccolo andavo forte con i Lego. Più paziente di un uomo che porti a spasso la sua tartaruga – o dell’automobilista che tallona il milanese col cappello – ho atteso per anni, soffrenDo all’idea dei blocchetti stipati al buio della soffitta.

L’alibi perfetto per rispolverare i mattoncini e arricchire la vecchia collezione è infine arrivato con la paTernità. Figliare nasconde vantaggi inaspettati!

Play

Quante volte hai ascoltato una canzone pensando che fosse scritta per te? Succede continuamente. La ascolti e la canti, e più la ricanti più te la senti addosso, plasmandone il significato perché ti vesta a pennello. Il fenomeno è più frequente nell’adolesCenza, quando le tempeste ormonali e le turbe sentimentali ti sparano sulle montagne russe: un giorno ti senti al settimo cielo, quello dopo stai da schifo. Dal Blue Tornado alla Blue Whale.

Un colpo di fulmine, una cotta da capogiro, una rottura burrascosa… non importa. Accendi la radio e il pezzo parla di te. Ma che ne sa l’autore? Mi spia? Controlli lo smartphone e per un attimo ti sfiora l’idea che dietro quella minicamera si nasconda un Grande FrAtello dell’industria musicale, intento a buttar giù febbrili appunti ad ogni inciampo o sbandata che prendi. Vabbé sticaz Ma in fondo, farebbe differenza? Già ti profilano ovunque, dal supermercato al web, alla palestra. Fai spallucce e alzi il volume, chissà che il pezzo non ti riveli qualcosa del tuo futuro?

Qualcuno suggerisce di memorizzare nella rubrica del cellulare, sotto l’abbreviazione standard ICE (In Case of Emergency), il numero della persona che vorresti fosse informata se ti trovi coiNvolto in un incidente. Potrebbe aiutare i soccorritori. Ho un’altra idea: scegli una canzone che ti esalta, e che ti rende felice. Caricala nel tuo lettore, potrebbe aiutare te.

La canzone giusta al momento giusto ha un potere enorme: può darti la scossa per voltare pagina se la tua vita si è incartata in un capitolo buio, può suggerirti l’opzione giusta o quella sbagliata, farti riconsiderare una decisione avventata. Può persino salvarTi sull’orlo del precipizio, come sostiene Max Gazzé. Ricordalo se è il cinquantesimo giorno e ti trovi sulla cima di un palazzo: è il momento di scorrere la playlist fino al tuo pezzo ICE, e di recuperare la gioia di vivere.

Nel blog celebro spesso il risvolto positivo degli errori, opportunità di approcciare un problema con occhi diversi. Da un salto nel buio può scaturire un’occasione vantaggiosa: osAre un approccio con il ragazzo o la ragazza che ti piace, avviare un’attività, trasferirti alla ricerca di un nuovo inizio, sono scelte che potrebbero dare una svolta positiva alla tua vita.
Nulla di buono può invece scaturire da un salto nel vuoto, da cui non c’è ritorno. Il coraggio è una dote indispensabile, ma va canalizzato nella giusta direzione. Volare va bene, ma in senso figurato, come suggerito dall’improbabile featuring di Rovazzi e Morandi: trovando ogni giorno un motivo per sorridere e divertirci.

Lasciamoci contaminare da tutto quanto di bello e positivo ci circonda: il blu e la malinconia lasceranno spazio ad emozioni di tutte le sfumature dell’arcobalena.

Dentro lo zaino

Oggi, ricordando il mio plurirattoppato glorioso zaino Microchip, ho sguinzagliato Google alla ricerca dei modelli più in voga degli anni 90. Imbarcarmi nella ricerca è stato un errore: ho buttato un’ora di tempo, sottraendolo ad attività più utili, e senza trovaRe uno straccio di immagine che documentasse l’esistenza di quella mitica reliquia.

L’effetto nostalgia è un impulso potente: in stato di ipnosi ho passato in rassegna una galleria psichedelica di zaini Seven e Invicta. Chiunque abbia frequentato in quegli anni scuole di ogni ordine e grado, in quelle improbabili tinte evidenziatore declinate in grafiche a casaccio, ci ha lasciato il cuore.

I modelli erano essenziali: grande vano per il materiale scolastico e tascone anteriore spappola merendine. Tele immacolate nelle mani di artisti estrosi, al secondo quadrimestre c’era più inchiostro su quegli zaini che sulla pelle di Fedez: le ragazze vi appuntavano le iniziali dell’ultima cotta, si scambiavano dediche giurandosi etErna amicizia e trascrivevano passaggi dalle canzoni preferite. I ragazzi, più sobri, si limitavano in genere a professare la loro fede calcistica.

Hai presente il classico spot del detersivo per pavimenti? Incrostazioni alte due dita che neanche a Pompei dopo l’eruzione vulcanica, lasciano il posto al candore abbagliante dopo una fugace passata di straccio. Ebbene, ricordi sepolti da vent’anni sono riaffiorati di colpo, vividi come non mai. SfoGliavo le immagini degli zaini sul monitor e rivedevo i volti dei compagni di scuola che li avevano indossati.

Eravamo timidi scolaretti delle elementari, con i pugni stretti intorno ai grandi spallacci. Ad ogni passo lo zaino, enorme, rinculava colpendoci l’incavo delle ginocchia, conferendo la tipica andatura dinoccolata. Sussidiario e quadernone, maestro unico. Il bambino che per primo perse il papà aveva lo zaino blu e verde. Per molti fu uno shock elaborare la possibilità che un lutto tanto drammatico potesse colpire proprio noi.

Crescevamo in fila per due: tartarughine dai gusci variopinti a predominanza rosa shoking e verde fluo. Il mio amicone con lo zaino giallo e verde cadde e si ruppe gli incisivi. Alle medie ammiravo la compagna con lo zaino fucsia a fantasia leopardata per i suOi brillanti risultati scolastici e i capelli biondissimi. Gli zaini – compagni insostituibili della nostra quotidianità – apparivano meno oversize, attraversando indenni le tante mode passeggere: ciuccini, schede telefoniche e collane tatoo.

I ricordi più indelebili sono quelli dell’adolescenza. Coincidono con quelli della progressiva, solida e duratura affermazione della personalità. È il periodo in cui diventiamo veramente noi stessi, e la nostra memoria fissa quei momenti con una dovizia di particolari, colori, suoni e profumi che non ha eguaLi. Alcuni oggetti ci identificano in maniera univoca, anche a distanza di anni: ricordo l’Alcatel di Sabrina, l’orologio di Lorena, il maglione giallo di Simone; ma sono stati gli zaini scolastici i veri totem dell’infanzia e dell’adolescenza dei “millenials per un pelo”.
Alle superiori, per fare i fighi, portavamo gli zaini su una spalla sola, antesignani dell’Ispettore Catiponda. Molti di noi non hanno mai recuperato la simmetria, e conservano intatte le emozioni, le canzoni e la scoliosi di quegli anni.

Gli antichi ritenevano che la sede della memoria fosse nel cuore. Oggi sappiamo che non è così, ma l’etimologia della parola “Ricordare”, dal latino Re- e Cordis (cuore), suggerisce in maniera molto poetica come rivivere i ricordi li faccia ritornare dalle parti del cuore. Al ritmo dei battiti viaggiamo a ritroso nel tempo, riportando alla luce vissuti, paure e desIderi solamente nostri, riuscendo ad emozionarci come la prima volta. A conti fatti, il tuffo nel passato scaturito dalla mia ricerca non è stato tempo perso. Un’emozione non lo è mai.

La voce e il buio

Si dice che non si decida di diventare un attore o un doppiatore. Semplicemente, lo si è già. Nel mestiere che non ho scelto di praticare, all’interno di una stanza buia con la sola compagnia di un copione, uno schermo e un microfono davanti a sé, l’errore è all’ordine del giorno.

Si sbaglia nell’articolare una parola, ci si perde tra i labirinti semantici di righe contorte e frasi spesso difficili da pronunciare, non si riesce a rispettare il labiale di chi si sta doppiando. Un attore ride, piange, si emoziona e si dispera per noi e per se stesso. Ci consegna una vita che non è la nostra e non è la sua. Persino il suo silenzio, tra una battuta e l’altra, naviga su frequenze che raramente riusciamo a percepire. Cerca il suo equilibrio e, molto spesso, è proprio il non trovarlo a consacrarne il genio.

“Buona, andava bene! Ma sei un po’ scivolato sul finale, ne facciamo un’altra per sicurezza!”. Questo e molto altro è ciò che un direttore (il regista nel campo del doppiaggio) si trova a dover pronunciare varie volte nell’arco di una giornata lavorativa. Eppure, sa benissimo che la seconda prova – seppur magistrale nella musicalità e nell’articolazione – perderà quella scintilla di spontaneità cui il doppiatore si era affidato all’inizio. Semplicemente, non avendo attivato i centri razionali del cervello, per un attimo infinitesimale era stato egli stesso quella battuta.

Capita spesso, soprattutto in film molto vecchi, di imbattersi in doppiaggi non perfetti stilisticamente: voci sporche, audio grezzo, stacchi troppo marcati. Il suono però, di per sé, non esiste senza una fonte ricettiva a percepirlo: ecco perché, in una lavorazione perfetta stilisticamente, il nostro cervello ci porterà a sentire la mancanza di quell’errore, la parte più umana dell’attore.

La memoria acustica, similmente a quella fotografica, va a ricercare suoni a noi familiari che sappiano calmarci, donarci conforto, benessere e protezione. Il medesimo procedimento si verifica anche quando è lo spettatore stesso a cadere in un abbaglio: quanti sarebbero disposti ad accettare che, nel film “The Mask”, il tormentone non fosse “spumeggiante” bensì “sfumeggiante” (dall’inglese “smokin’”)? Che la regina cattiva di Biancaneve non dicesse “specchio, specchio delle mie brame” ma “specchio, servo delle mie brame”? Che la “supercazzola” di “Amici miei” in realtà fosse una “supercazzora”?
L’errore è parte della nostra biologia, è ciò che ci rende umani: ci distingue da un indefettibile orologio atomico che perde solamente un secondo ogni cinque miliardi di anni ma di cui nessuno avrà mai memoria.

Ci impegniamo a costruire macchine efficienti e infallibili: nel lavoro proviamo a emularle, a sbagliare il meno possibile, a essere perennemente performanti e inattaccabili. Dimentichiamo che nella nostra vivace fantasia letteraria ogni robot futuristico lotta con le unghie e con i denti con viti e cingoli per poter diventare umano: chi non ricorda l’emozionante finale de “L’uomo bicentenario”, in cui l’androide Andrew preferisce morire da essere umano piuttosto che vivere per sempre come macchina?

L’errore ci eleva, così nella recitazione come nella vita: d’altronde, anche il miglior comico del mondo non riuscirebbe a far ridere alcuno senza aver prima conosciuto la sofferenza egli stesso.

Alessandro Bianchi, doppiatore e speaker

Realtà aumentata

Trovo sul tavolo la lista della spesa: “frutta, latte, cereali…”. Con il senno di poi, ci avrei scritto: “Buongiorno signor Spiego l’ego. La sua missione, se dovesse accettarla, riguarda la spesa settimanale. Se venisse catturato o uCciso, il governo negherà di essere stato a conoscenza dell’operazione. Questo messaggio si autodistruggerà tra cinque secondi”.

Supermercato. Le porte scorrevoli si richiudono alle mie spalle.

Buio in sala.

Il reparto ortofrutta è una giungla: decine di impiegati riforniscono ceste e scaffali, i clienti sbraitano intralciandosi con carrelli e carrellini. In un angolo, la cassetta delle banane in offerta avvalora le tesi di Darwin e scatena violenti istinti primordiali. Devo pesare delle zucchine, ma aggiudicarsi una bilancia è un gioco di abilità e studio dei tempi degno dei trabOcchetti di Indiana Jones. Abbasso la tesa del mio Fedora immaginario, imbraccio l’iconica frusta e mi lancio nella gimkana. Procedo a zigzag tra ostacoli, ascelle commosse e bancali di merce da etichettare. Una voce dopo l’altra la lista si assottiglia, finché l’ultimo espositore mi separa dall’area delle casse. Chiudo gli occhi e compio il balzo della fede.

L’avventura cede il passo all’horror. Mi trovo immerso in un carnaio infernale degno di Saw l’enigmista. Nel macabro tetris di corpi e carrelli, file sbilenche e tormenti, si consuMano violente torture psicologiche. Un cliente annebbiato ruota il polso e dà gas al carrello: rivive le impennate con il Fifty in cerca di una via d’uscita. Si procede a rilento, manca la coordinazione cliente-cassiera nell’afferrare la merce scagliata nello scivolo metallico. I più deboli soccombono alla pressione e sudando stipano gli articoli nei sacchetti in ordine casuale, versando lacrIme silenziose per le uova finite sotto il fustino del detersivo, che l’importante è togliersi da lì. A casa faranno la conta dei danni.

Più in là, uno spaghetti-western all’apice della tensione: in un’inquieta atmosfera alla mezzogiorno di fuoco, due signore conformi allo stereotipo della casalinga sono affiancate in un’unica fila. Un’inquadratura a piano americano, tagliata all’altezza delle ginocchia, coglierebbe la drammaticità della scena. IstintivameNte porto la mano alla fondina del mio illusorio cinturone. So come funzionano queste cose: dal duello alle bottigliate è un attimo, e il pianista ci resta secco. Una delle signore infila la mano nella borsa e stringe la sua carta fedeltà. L’altra svaga fingendo interesse per gomme da masticare e rasoi quadrilama, guadagnando qualche centimetro con il suo carrello. Sergio Leone proporrebbe un primissimo piano: minacciosi sguardi in tralice, pieghe di espressione, fronti corruGate. I pugni stringono la presa sui carrelli.

Il sottofondo di Morricone viene bruscamente interrotto da uno scroscio metallico, proprio un paio di persone davanti a me. All’atto del pagamento, un anziano signore ha rovesciato una quantità di rame sufficiente a forgiare quattro paioli da polenta. È il dramma: alle mie spalle si levano ululati di autentica disperazione. In condizioni normali anch’io mi lascerei andare allo sconforto, ma la prendo sportivamente: sono in ferie, non ho fretta, e la recente iscrizione al corSo di yoga – convenuta in un moto di riconoscenza verso il mio istinto – mi ha pervaso di armonia e coscienza zen.

Sorrido in solitudine e noto il responsabile del punto vendita che, mento sollevato, effettua una scansione del serraglio. Cosa gli passa per la testa? Mi immergo nel suo campo visivo e mi ritrovo nel casco di Ironman. Un’interfaccia intelligente sOvrappone informazioni utili in realtà aumentata: “Anziano appassionato di numismatica: tempo stimato di pagamento, 4 minuti”. “Mamma con bimbo turbolento: i capricci la distrarranno: 3 minuti”. “Trentenne maschio, tonno in scatola e surgelati: single. Con cassiera attempata, check-out in 45 secondi”. E così via, ordinaria amministrazione. Finché J.a.r.v.i.s non lancia un alert di livello 3: “Esemplare di milanese imbruttito in pensione: si lamenterà della coda che ha contribuito a rallentare e chiederà conto di ogni coupon consegnato insieme allo scontrino. Quando potrò usarlo? Posso cederlo a mio genero? Quando mangerò questi cracker, l’incarto andrà nella plastica o nell’indifferenziata?”

Colgo la scintilla nello sguardo del responsabile. Si volta e parte ad ampie falcate in direzione del suo gabbiotto. Con calma esco dalla fila e mi sistemo nell’unica cassa chiusa, ripOnendo sul nastro i miei articoli. Solo a questo punto il microfono annuncia l’imminente apertura della cassa 5. Nemmeno il segnale di Massimo Decimo Meridio avrebbe scatenato una tale devastazione: il clangore dei carrelli, usati per tagliare la strada agli avventori rinvenienti dalle retrovie, sovrasta lo scalpiccio frettoloso. È una lotta per la sopravvivenza, cui nemmeno i più deboli si sottraggono. In una scena surreale, vedo letteralmente decollare una signora sulla settantina, con il braccio inspiegabilmente teso davanti a sé nella posa di Superman, che disegna una perfetta parabola nell’aria per atterrare rovinosamente su una fila di carrellini-trolley. Un silenzio assordante ferma il tempo, finché un imbarazzato “Sono inciampata” restituisce il battito cardiaco alle persone vicine, che si prodigano per ricomporla. Lei si saggia il femore, pare che abbia retto.

Lieto fine, titoli di coda.

Sconvolto, ma divertito dall’esperienza, guadagno il parcheggio e sistemo i sacchetti nel portabagagli. È finita, penso. Ma c’è un’ultima easter egg, introdotta dal ruggito di un motore tirato a 5.000 giri. Mi volto di scatto aspettandomi la gang di Toretto impegnata in qualche numero alla Fast and Furious. No. È un nonnino alla guida di un residuato bellico una Lancia Thema dell’88 impegnato a parcheggiare in retromarcia. Ha dimenticato di staccare la frizione.

Luci in sala.

Adoro la magia del cinema. Dai colossali impianti multisala, alle antiquate sale ammorbate dalla muffa e dall’umidità, se il film è quello giusto, l’esperienza riesce sempre a coinvolgermi. La tecnologia dell’intrattenimento si evolve rapidamente: pellicole IMAX, effetti 3D e audio digitale promettoNo emozioni sempre più immersive, ma non c’è storia. Non facciamo l’errore di cercare esperienze reali affondati nelle poltroncine. Viverle davvero è enormemente più divertente!

Il tango, una sintonia senza errori

Il timore di sbagliare è una presenza costante nella nostra vita: lo percepiamo nelle decisioni importanti, ma anche nelle piccole scelte di tutti i giorni. Ne subiamo l’influenza, tanto da non sentirci mai veramente liberi. Esistono però alcune eccezioni, e vorrei dare il mio contributo parlando proprio di una di esse: il tango argentino. La mia passione, nonché il mio lavoro.

Il tango è una disciplina basata sulla connessione e l’improvvisazione di due persone, due ballerini, che per qualche minuto si uniscono per danzare sulle malinconiche note argentine.
Il tango è pura ispirazione: non ha schemi, sequenze di passi prestabiliti o coreografie da ricordare… Ballare il tango vuol dire “creare” passo dopo passo, insieme all’altra persona, percependo il corpo del partner, ascoltando la musica e gestendo lo spazio. Niente è giusto, niente è sbagliato. Tutto è “vero” perché accade lì, in quel momento e va come va: nessun ballo potrà mai essere uguale a un altro, nessun uomo potrà ballare allo stesso modo con diverse donne, e viceversa.

Diceva il mio primo maestro di tango: “Non abbiate fretta di giudicarvi! Non esiste l’errore. State nella difficoltà che incontrate, cercando di capire che non è il passo ciò che conta”. Parole sante. Fermarsi al passo vuol dire inchiodarsi e perdere di vista la cosa più importante per ballare questa danza: l’ascolto, la connessione e dunque il lasciar fluire.
Solo dimenticandoci della possibilità dell’errore riusciamo a creare! Basta ascoltare, e lasciarsi andare. E come per magia… tutto andrà bene, il ballo sarà leggero, godibile e si avrà voglia di ballare ancora e ancora.

Laura A., ballerina e insegnante di tango argentino

attraverso lo specchio

Ogni persona che incrocia il nostro cammino è diversa da tutte le altre che conosciamo, con il suo bagaglio di esperienze, i suoi modelli comportamentali e il suo modo di comunicare. Questa infinita varietà di sfaCcettature mi ha sempre intrippato affascinato: da piccolo mi divertivo ad osservare le persone cercando di indovinarne i pensieri o prevederne le scelte. Dalle amicizie del cortile alle fugaci frequentAzioni estive, ogni nuova conoscenza era una stimolante occasione di scoperta. Tiravo a indovinare quale sarebbe stata la risposta alla domanda che avessi posto, o che cosa passasse per la testa di chi avevo davanti.

Intorno alla fine degli anni ’90 ho assunto l’impegno di modeRare una chat room riservata agli under 21. Accoglievo i nuovi arrivati fornendo indicazioni di massima sul funzionamento di quell’ambiente virtuale, preoccupandomi di monitorare il traffico alla ricerca di eventuali utenti malintenzionati. Più dei provocatoRi e delle teste calde, l’attenzione era concentrata nell’individuare profili falsi e potenziali adescatori. Quanto quell’esperienza abbia affinato le mie doti investigative non saprei dirlo con certezza, ma una volta imparato a distinguere impercettibili segnali di incongruenza nel rapido flusso di testo, “leggere” le persone mi è parso molto più semplice.

Le regole d’ingaggio del contatto vis-à-vis non lasciano scampo: non c’è una tastiera dietro cui nascondersi, né il tempo per riflettere a lungo su ciò che si sta per dire. Gli scambi sono veloci, e ci si guarda in faccia: ad un dialogo più spOntaneo si accompagna l’enorme valore aggiunto del linguaggio non verbale. Per decifrare ciò che l’interlocutore ci sta trasmettendo – il più delle volte in maniera totalmente inconsapevole – abbiamo a disposizione la parte immersa dell’iceberg: gesti più o meno evidenti, micro espressioni del voLto, movimenti degli occhi. A volte è sufficiente concentrarsi su questi ultimi per comprendere chi ci sta di fronte. Le pupille si dilatano o si contraggono, lo sguardo fugge seguendo i capricci della mente, gli occhi guizzano svelando alcuni processi cognitivi. Dice la verità? Sta ricordando? Che cosa prova in questo momento?

L’appellativo di “specchi dell’anima” è riduttivo. Sono convinto che nelle cripte e nei solchi dell’iride sia incisa la nostra quintessenza. Un’analisi attenta può rivelare di una persona più di quanto si possa immaginare. Prova! Ma se vuoi giocare ad Alice, meglio assicurarti ad una fune per il ritorno: non conosci la profondità che troverai finché non sarai immerso nell’abisso. Sottovalutare il magnetismo e le impLicazioni di un lungo sguardo ricambiato potrebbe rivelarsi un errore. Potenzialmente, il più bello della tua vita.

Dedicato a (S)te

Sogni e amnesie. Sono le risorse più abusate da scrittori e sceneggiatori senza fantasia: ogni volta che mi imbatto in uno di questi espedienti narrativi mi viene il latte alle ginocchia. Naturalmente ce l’ho con la mancanza di immaginazione e con le scorciatoie facili, non con i sogni, che trovo fantastici.

Ho la fortuna di essere un onironauta. Significa che, in determinate circostanze, acquisisco la consapevolezza di trovarmi in un sogno, riuscendo a cambiarlo a mio vantaggio. In genere funziona così: se percepisco che la situazione è assurda, noto elemenTi irreali o mi trovo in pericolo imminente, scatta una specie di meccanismo di protezione. La mia razionalità giunge in aiuto e mi siedo alla regia, proseguendo l’esperienza in un sogno lucido. Nella mia personale Matrix sono libero di affrontare ogni antagonista, abbattere gli ostacoli e raggiungere qualunque obiettivo, vincolato solo dai limiti – peraltro ancora inesplorati – della mia fantasia.

È notte, nel letto i nervi cominciano a distendersi. Guardo un po’ il buio, schiarito dai lampi intermittenti del led che dal soggiorno segnala una temperatura esterna inferiore ai 3 gradi. Si sta bene, sotto le coperte! Chiudo gli occhi e mentre il pensiero vaga libero tra gli avvenimenti della giornata e qualche preoccupazione, cedo all’abbraccio di Morfeo.

Con un guizzo l’omino del cervello imbraccia un cestello e inizia a correre di qua e di là, eccitato come un concorrente nella dispensa di Masterchef: “Profumi e ricordi di quella vacanza romantica, un pizzico di trauma infantile, una spolverata di nonsense…”. Tra tanto ben di Dio finisce con l’infilare nel paniere anche roba completamente fuori tema e quando raggiunge concitato la postazione, immancabilmente, si accorge di aver dimenticato l’ingrediente principe: “Nooo! Lo scalogno! La coerenza!”

Il mio sogno tipo è un minestrone impazzito: più audace dell’ultima invenzione di uno chef stellato, più “fusion” di un ristorante cinese che propone la parmigiana di melanzane. Può essere ambientato nella vecchia soffitta dei nonni, nell’anno 2024, con affaccio sugli Champs Elysee, sovrastati dall’astronave di Indipendence Day con il logo di Ehuè. Mi diverto un sacco!

Per il paradosso della rana bollita, però, non riesco a rendermi conto di vivere un sogno se vengo calato piano piano nella scena. Così, se le incongruenze e le storture si presentano poco alla volta, o le emozioni preValgono sulla logica, l’allerta non scatta e mi trovo sempre più coinvolto in quella che percepisco come un’esperienza reale.

È sera, sto percorrendo il viale di un ospedale. Provo un misto di angoscia e preoccupazione, perché sto andando a trovare una cara amica. Stanza 26-ET. Strana numerazione, ma non ci penso: voglio raggiungerla in fretta. Salgo e scendo scalini, mi addentro in un dedalo di corridoi e cunicoli sempre più sinistri. La conosco dalle elementari. Confusi cartelli pieni di frecce indirizzano ai reparti, cerco di orientarmi, la 26-ET dev’essere da questa parte. Mi torna alla mente un ricordo prescolare: una bimbetta di un metro o poco più gioca nel cortile. Suo padre ha affittato un garage nel nostro condominio. Ha dei grandi cani, mi fanno un po’ paura. Una scala più piccola si separa da quella principale, e scende in un interrato da brivido: luci al neon sfarfallano ronzando, fa freddo. Seguo i tubi malconci e ossidati che corrono lungo il corridoio. A scuola stava sempre con l’altra bambina, dalla pelle bianca bianca e i capelli neri neri. Oggi sono entrambe mamme. Una flebile luce dietro un angolo rivela un’intercapedine all’interno del quale hanno sistemato un lettino. Stanza 26-ET. Eccola! Sola e tremante, ha le spalle nude e solo un lenzuolo sdrucito a ripararla dal freddo. Un passerotto caduto dal nido, emblema della fragilità. C’è un termostato: lo regolo e in un attimo la temperatura si fa più gradevole. È contenta di vedermi, non parliamo della ragione del suo ricovero, che realizzo di non conoscere, ma delle cose belle che ci uniscono. Ricordiamo tanti aneddoti divertenti, solo nostri: pullman, strane persone affacciate ai balconi, scuse rivolte ad un albero… e ridiamo insieme. Quando la penombra di quella stanzetta tetra e umida mi ripiomba nel magone, i toni si fanno più seri. Le racconto dell’ammirazione che ho di lei: intelligente, forte, determinata. Negli ultimi anni ha saputo reagire alle avversità in un modo che mi ha davvero colpito. Penso spesso a lei, e anche se non ci sentiamo per lunghi periodi, per me è un modello. Lei si commuove. Anch’io.

Sono sveglio. Ho bisogno di qualche minuto per elaborare le emozioni profonde che ancora mi scuotono. Commetto spesso l’errore di dare per scontate amicizie e relazioni: l’affetto, la stima, la riconoscenza che nutro nei confronti delle persone che mi circondano me la tengo dentro, convinto che – in fondo – loro sappiano già. Non dovremmo precluderci la possiBilità di esprimere la nostra approvazione esplicitamente, fornendo alle persone che apprezziamo le conferme positive che meritano. O le osservazioni critiche più costruttive.

Il cuore non mi dà pace finché non chiamo l’amica di sempre per ribadire nella vita reale quanto confidatole poco prima. La vita le ha riservato molte gioie, ma l’ha anche messa alla prova presentandole il conto con dure sfide da affrontare ogni giorno. Non è sola: può contare su una splendida famiglia. Ma una sincera testimonianza di profondo affetto può fornire uno stimolo in più per affrontare la giornata con un sorriso.

Il risvolto positivo di questo errore? Siamo induriti dal peso della routine quotidiana, i rapporti interpersonali tendono ad essere piuttosto freddi e il filtro degli smartphone può allontanarci gli uni dagli altri. Saremo pure colpevoli di aver trascurato alcuni affetti, ma nel momento in cui rimediamo facendo un passo sincero in direzione dell’altro, possiamo scoprirci più uniti e vicini di quanto non lo siamo mai stati. Provaci anche tu!