All inclusive, dolci al buffet

Con il casello alle spalle, mentre imbocchiamo la familiare tangenziale verso casa, già fantastichiamo sulle ferie del prossimo anno. Quelle estive, per molti italiani, sono votate alla sacra vacanza al mare. C’è chi ripone in quei 15 giorni ogni aspettativa di relax, evasione, svago e nuove conoscenze da concedersi fino all’estate successiva. È un errore: ogni giorno andrebbe vissuto alla ricerca della felicità e di piccoli spunti positivi, ma è uno di quei proPositi difficili a mantenersi, un po’ come quello di studiare ogni giorno invece di ridursi all’ultimo momento. Non ho mai creduto alla figura mitologica dello studente strategico, né all’esistenza della vacanza perfetta. Di certo a ‘sto giro ho imparato che la formula “vacanza in albergo all-inclusive”, nelle premesse già lontana dalla mia idea di libertà, non è sinonimo di pace e pieno relax rigenerante. Almeno in ore pasti.

A poche ore dalla colazione luculliana, nel rispetto della serrata programmazione giornaliera, siamo di nuovo a tavola. Dopo aver servito i primi, un cameriere si avvicina ad un tavolino e con un gesto teatrale ispirato al mago Silvan svela la macchina miscelatrice del sorbetto, fin qui celata da una tovaglia. Si allontana poi con una cErta rapidità, muovendo il drappo a mo’ di torero, come se l’orda spontanea che si sta già avvicinando avesse bisogno di ulteriori incitamenti.
C’è abbastanza sorbetto per sfamare gli abitanti di un principato per diversi mesi, ma quando intuisco l’andazzo mi avvio anch’io, pungolato nell’orgoglio del buon padre: il livello di testosterone nell’aria risveglia gli istinti primordiali. Dentro di me sento che devo procacciare il dolce al cucchiaio per la mia famiglia.

Non c’è una fila, vige la legge della giungla. A fianco del miscelatore c’è una pila di bicchierini, ma i più si sono portati i calici da 40cl e mungono la sorbettiera modellando picchi più audaci della cresta di Arturo Brachetti. Quando finisce il bicchiere, qualcuno si fa perfino un giro di sorbetto sulla mano prima di lasciare il posto al disperato dietro di lui.
Mi volto perché un tizio mi si appoggia con insistenza da dietro. È Cthulhu: ha gli occhi appallati e la bocca così piena di bucatini che fuoriescono dappertutto. Dev’essersi affrettato a svuotare il piatto servendosi una forchettata in stile “Un americano a Roma”, dimentico di non poter inghiottire bocconi più grandi del suo esofago. È cianotico, non ce la farà.

Completata l’operazione al distributore, entro in modalità All Blacks: spalle larghe e pettorali gonfi, collo infossato e occhi spiritati, proteggo il magro bottino di due bicchierini fino alla linea di meta del mio tavolo, costRetto ad assestare qualche gomitata ai più facinorosi.
Una prova del genere ti fa davvero apprezzare il sorbetto, inducendoti a centellinarlo e a decantarlo con la referenza del sommelier. Il mio, tristemente, ha un retrogusto di plastica.

Il secondo viene servito e consumato senza ulteriori colpi di scena né vittime, finché mia moglie accenna al movimento improvviso che prende vita alle mie spalle. Intorno a due grandi tavoli brulica una folla di dannati, come in un film di Romero. Mi sale l’inquietudine: stanno allestendo il buffet dei dolci. Due domatori camerieri in livrea sono schierati per preparare i piatti, ma la folla impazzita proclama l’autogestione e impugnate le spatole inizia a menare fendenti al tiramisù.

A dispetto degli stereotipi che dipingono i tedeschi un popolo morigerato e irreprensibile, italiani e alemanni si affrontano alla pari e senza esClusione di colpi. Di fronte al buffet dei dessert sale un agonismo che neanche ai mondiali del 70. Gli anarchici di entrambe le fazioni, sostenitori di un convinto “Sì al colesterolo”, si servono porzioni di torta delle dimensioni dei quadrelli da pavimentazione.

Mi getto poco convinto in questa mischia surreale, osservando le prime pirofile già ripulite. Mi colpisce un cameriere – madido di sudore come il miglior Bonolis – che compie l’estremo tentativo di portare ordine nel caos: “Un po’ di zuppa inglese la desidera?”. Un ospite gli fa eco, sollevando il mento “E cché, nno?” e gli porge il piatto, indicando lo spazio tra il montblanc e la panna cotta. Ovunque intorno a me sfilano piatti traboccanti cHe potrebbero essere abitati dalla strega di Hansel & Gretel per brevi periodi.

Due signore attempate si contendono l’ultima palla di profitterol. La tensione e l’intensità nei loro sguardi è palpabile e decido di provare più in là per non ritrovarmi coinvolto nel catfight. Trovo un omone dalle fattezze russe intento ad accatastare quattro fette di crostata su una base di muffin e salame al cioccolato. Che al tavolo lo attenda affamato l’intEro equipaggio della corazzata Potëmkin? La sua piramide non ha i basilari requisiti statici per reggersi, ma lei non lo sa e rimane in piedi. Fino all’imboscata tesa dalla gamba di un seggiolone. «Jenga!» – mi sorprendo ad esclamare ad alta voce.

Ma io, perché sono qui? Sono anche sazio! Prima di farmi del male, opto per quattro mini porzioni di panna cotta facilmente reperibili e faccio ritorno al tavolo dei miei affetti. L’anno prossimo campeggio estremo. Dall’idea che mi sono fatto guardando The Revenant, spartire il salmone con gli orsi affamati sarà un’esperienza più rilassante.

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