La voce e il buio

Si dice che non si decida di diventare un attore o un doppiatore. Semplicemente, lo si è già. Nel mestiere che non ho scelto di praticare, all’interno di una stanza buia con la sola compagnia di un copione, uno schermo e un microfono davanti a sé, l’errore è all’ordine del giorno.

Si sbaglia nell’articolare una parola, ci si perde tra i labirinti semantici di righe contorte e frasi spesso difficili da pronunciare, non si riesce a rispettare il labiale di chi si sta doppiando. Un attore ride, piange, si emoziona e si dispera per noi e per se stesso. Ci consegna una vita che non è la nostra e non è la sua. Persino il suo silenzio, tra una battuta e l’altra, naviga su frequenze che raramente riusciamo a percepire. Cerca il suo equilibrio e, molto spesso, è proprio il non trovarlo a consacrarne il genio.

“Buona, andava bene! Ma sei un po’ scivolato sul finale, ne facciamo un’altra per sicurezza!”. Questo e molto altro è ciò che un direttore (il regista nel campo del doppiaggio) si trova a dover pronunciare varie volte nell’arco di una giornata lavorativa. Eppure, sa benissimo che la seconda prova – seppur magistrale nella musicalità e nell’articolazione – perderà quella scintilla di spontaneità cui il doppiatore si era affidato all’inizio. Semplicemente, non avendo attivato i centri razionali del cervello, per un attimo infinitesimale era stato egli stesso quella battuta.

Capita spesso, soprattutto in film molto vecchi, di imbattersi in doppiaggi non perfetti stilisticamente: voci sporche, audio grezzo, stacchi troppo marcati. Il suono però, di per sé, non esiste senza una fonte ricettiva a percepirlo: ecco perché, in una lavorazione perfetta stilisticamente, il nostro cervello ci porterà a sentire la mancanza di quell’errore, la parte più umana dell’attore.

La memoria acustica, similmente a quella fotografica, va a ricercare suoni a noi familiari che sappiano calmarci, donarci conforto, benessere e protezione. Il medesimo procedimento si verifica anche quando è lo spettatore stesso a cadere in un abbaglio: quanti sarebbero disposti ad accettare che, nel film “The Mask”, il tormentone non fosse “spumeggiante” bensì “sfumeggiante” (dall’inglese “smokin’”)? Che la regina cattiva di Biancaneve non dicesse “specchio, specchio delle mie brame” ma “specchio, servo delle mie brame”? Che la “supercazzola” di “Amici miei” in realtà fosse una “supercazzora”?
L’errore è parte della nostra biologia, è ciò che ci rende umani: ci distingue da un indefettibile orologio atomico che perde solamente un secondo ogni cinque miliardi di anni ma di cui nessuno avrà mai memoria.

Ci impegniamo a costruire macchine efficienti e infallibili: nel lavoro proviamo a emularle, a sbagliare il meno possibile, a essere perennemente performanti e inattaccabili. Dimentichiamo che nella nostra vivace fantasia letteraria ogni robot futuristico lotta con le unghie e con i denti con viti e cingoli per poter diventare umano: chi non ricorda l’emozionante finale de “L’uomo bicentenario”, in cui l’androide Andrew preferisce morire da essere umano piuttosto che vivere per sempre come macchina?

L’errore ci eleva, così nella recitazione come nella vita: d’altronde, anche il miglior comico del mondo non riuscirebbe a far ridere alcuno senza aver prima conosciuto la sofferenza egli stesso.

Alessandro Bianchi, doppiatore e speaker

attraverso lo specchio

Ogni persona che incrocia il nostro cammino è diversa da tutte le altre che conosciamo, con il suo bagaglio di esperienze, i suoi modelli comportamentali e il suo modo di comunicare. Questa infinita varietà di sfaCcettature mi ha sempre intrippato affascinato: da piccolo mi divertivo ad osservare le persone cercando di indovinarne i pensieri o prevederne le scelte. Dalle amicizie del cortile alle fugaci frequentAzioni estive, ogni nuova conoscenza era una stimolante occasione di scoperta. Tiravo a indovinare quale sarebbe stata la risposta alla domanda che avessi posto, o che cosa passasse per la testa di chi avevo davanti.

Intorno alla fine degli anni ’90 ho assunto l’impegno di modeRare una chat room riservata agli under 21. Accoglievo i nuovi arrivati fornendo indicazioni di massima sul funzionamento di quell’ambiente virtuale, preoccupandomi di monitorare il traffico alla ricerca di eventuali utenti malintenzionati. Più dei provocatoRi e delle teste calde, l’attenzione era concentrata nell’individuare profili falsi e potenziali adescatori. Quanto quell’esperienza abbia affinato le mie doti investigative non saprei dirlo con certezza, ma una volta imparato a distinguere impercettibili segnali di incongruenza nel rapido flusso di testo, “leggere” le persone mi è parso molto più semplice.

Le regole d’ingaggio del contatto vis-à-vis non lasciano scampo: non c’è una tastiera dietro cui nascondersi, né il tempo per riflettere a lungo su ciò che si sta per dire. Gli scambi sono veloci, e ci si guarda in faccia: ad un dialogo più spOntaneo si accompagna l’enorme valore aggiunto del linguaggio non verbale. Per decifrare ciò che l’interlocutore ci sta trasmettendo – il più delle volte in maniera totalmente inconsapevole – abbiamo a disposizione la parte immersa dell’iceberg: gesti più o meno evidenti, micro espressioni del voLto, movimenti degli occhi. A volte è sufficiente concentrarsi su questi ultimi per comprendere chi ci sta di fronte. Le pupille si dilatano o si contraggono, lo sguardo fugge seguendo i capricci della mente, gli occhi guizzano svelando alcuni processi cognitivi. Dice la verità? Sta ricordando? Che cosa prova in questo momento?

L’appellativo di “specchi dell’anima” è riduttivo. Sono convinto che nelle cripte e nei solchi dell’iride sia incisa la nostra quintessenza. Un’analisi attenta può rivelare di una persona più di quanto si possa immaginare. Prova! Ma se vuoi giocare ad Alice, meglio assicurarti ad una fune per il ritorno: non conosci la profondità che troverai finché non sarai immerso nell’abisso. Sottovalutare il magnetismo e le impLicazioni di un lungo sguardo ricambiato potrebbe rivelarsi un errore. Potenzialmente, il più bello della tua vita.

Iscriviti a yoga

Da studente reagivo con esplosività al suono della sveglia, sincronizzato ed organizzato come il Furio di Viaggi di Nozze. Azioni e tempi erano pianificati meticolosamente: i calzini (ultras) pronti a fianco dell’orologio, gli indumenti allineati nel giusto ordine, il bollitore sul piano cottura e la tavola sobriamente imbandita dalla sera prima con stoviglie da colazione e biscotti. Con gesti sicuri e decisi afferravo il mazzo di chiavi, il portafoGli, la giacca. Al momento di uscire di casa, un fugace sguardo al cielo era sufficiente per sentenziare che mi sarei lasciato la perturbazione alle spalle nei pressi del Ponte del Costone.
Dormire un quarto d’ora in più al mattino poteva fare la differenza tra una giornata affrontata da leone e una vissuta da pecora zombie. Facevo sempre tardi lavorando a qualche progetto grafico, coltivando la mia relazione d’amore a distanza o girovagando per il web.

Qualche anno dopo, faccio ancora le ore piccole: lavorando a qualche progetto grafico, coltivando la mia ex relazione d’amore a distanza – ora evoluta in matrimonio – o scrivendo sul blog. Ho un maggiore controllo sull’impulso al cazzeggio, ma la mattina ho i riflessi appannati. Al risveglio non somiglio più al riuscitissimo personaggio di Verdone, ma al più tragico Fantozzi. È come nei videogiochi: i primi schemi sono facili, perfino i mostri di fine livello non impegnano granché. Con automatismi sicuri e collaudati si avanza in scioltezza. Ora però siamo una famiglia con due bambini (ora addirittura tre n.d.r.): ci sono imprevisti e probabilità che nemmeno al Monopoli. Con maldestra appRossimazione mi destreggio tra le pacche amorevoli con le mani impastate di latte e biscotti, la cacca a sorpresa e il quizzone: “questa mattina si dispererà perché non voleva la tazza blu o perché la voleva assolutamente?”. Lì non puoi prepararti. È culo.

Ma il superboss del livello colazione è l’allineamento delle lune storte, marcato in rosso sangue anche nel calendario Maya. Lo capisco subito, appena si accende la luce della cameretta e partono gli strilli. Respiro. Chiudo gli occhi e rivivo le scene efferate di Siamo fatti così: se mi lasciAssi prendere dal nervoso, in un attimo un trombo mi occluderebbe le arterie. Scaldo il latte, mente l’istinto insiste “Iscriviti a yoga!”.

Stamattina ho fatto tardi. Raggiungendo l’ufficio con mezzi propri, non posso neanche giocarmi la carta “autobus dal balcone”.

Non so come, ho commesso un grave errore, affrontando una curva a velocità troppo elevata. La strada è in discesa e un lieve sobbalzo unito all’umidità deve aver causato l’improvvisa perdita di aderenza. L’auto ha sbandato violentemente, perdendo completamente l’asse posteriore. Una scarica di adrenalina altrettanto violenta mi ha precipitato in una scena al bullet-time, dandomi l’impressione di vivere un tempo rallentato. Ho ignorato l’impulso di sterzare bruscamente verso l’interno, compiendo un veloce controsterzo ed evitando il testacoda. Il guardrail era davvero vicino, ma ho atteso con tutti i sensi allertati il momento in cui le gomme posteriori avessero recuperato aderenza per riallineare lo sterzo e dare gas. Stavo ancora imbardando, e ho realizzato di essere sottocoppia: l’avantreno non avrebbe compiuto il balzo necessario a togliermi da quella situazione, così ho scalato bruscamente e pigiato sull’acceleratore. Ho recuperato il centro della carreggiata e domato un furioso effetto pendolo.

Il resto del viaggio è stato un’unica, complessa riflessione sull’imprudenza compiuta, sulle conseguenZe che avrebbe potuto avere e sull’efficacia dell’istinto nel tirarci fuori dai guai. Non ho mai frequentato corsi di guida sicura. Ho delle nozioni di meccanica e amo guidare, la mia auto è piccola ma sportiva, ne curo la manutenzione. Ma la differenza oggi l’ha fatta l’istinto: in poche frazioni di secondo ho gestito una situazIone complessa compiendo una serie di azioni senza averne la consapevolezza. Se avessi atteso i tempi del ragionamento, probabilmente sarei piombato nella strada sottostante e forse “Divagare nella giusta direzione” sarebbe stato l’ultimo capitolo del blog.

Ci sono errori che non andrebbero mai commessi. Guidare con imprudenza è uno di questi, e non lo rifarò. Eppure anche da questo ho imparato molto. L’istinto è un meccanismo congenito e immutabile messo a punto da un’evoluzione durata millenni. Ci spinge, ci indirizza. È quella vocina nella pancia che a volte ignoriamo, soffocandola spesso con eccEssive riflessioni. Oggi si è meritato la mia riconoscenza, e il mio impegno a prestare maggiore attenzione ai suoi suggerimenti.

Chiudere un occhio, vedere lontano

Chiudere un occhio, vedere lontano

Citazione All’inizio si ipotizzò che la mia maestra fosse un po’ svampita.
Metteva sempre BRAVISSIMA ai miei temi, eppure quando mia madre andava a leggerli, trovava un sacco di errori.
La prima volta pensò che la maestra fosse distratta.
La seconda pensò che magari non vedeva bene, visti gli occhiali che portava. La terza le telefonò per capire come mai non sottolineasse gli evidenti errori di grammatica che facevo nei miei temi.
E lei le rispose: “Signora, non lo faccia. Sua figlia quando scrive ha una grande fantasia, scrive di getto e con entusiasmo, se le facessimo notare gli errori potrebbe bloccarsi. Così invece si correggerà da sola man mano che studieremo la grammatica, senza perdere il piacere della scrittura.”
Quella maestra è diventata nel tempo una di famiglia, presente in ogni occasione speciale come una nonna saggia a cui dobbiamo tanto.
I suoi BRAVISSIMA mi hanno sproporzionatamente aiutata a non perdere il piacere della scrittura. Al punto che la scrittura è diventata la mia vita.
E io spero che questa storia possa servire a tanti adulti che hanno paura degli errori dei bambini.

Spingitori di lepidotteri

Domani piove. O c'è il sole.

Il coPione si ripete all’inizio di ogni anno, quando Brigitte Bardot soffre maggiormente i postumi del fischio alle orecchie. Sbaglio continuamente a datare contabili e documenti: “Duemilase-di-c… D’oh! Ci sono ricascato!” E il loop si ripete ogni due minuti. È difficile non cadere in errore quando dobbiamo andare contro abitudini ormai rAdicate, occorre pazientare per un tempo ragionevole. I complessi ingranaggi messi a punto dall’evoluzione sono già in movimento e appena saranno nella giusta posizione assimileremo i nuovi automatismi.

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Il treno sbagliato

“A volte il treno sbagliato mi ha portato nel posto giusto” Paulo Coelho


L’immagine rappresenta un rompicapo pubblicato per la prima volta sul blog il 7 dicembre 2016. Nel 2024, dopo un incidente che ha comportato la perdita di tutti i dati, ho deciso di avviare una paziente attività di ripristino con mia figlia. Ho pensato che potesse essere un’attività divertente e in qualche modo formativa per lei.

Ho faticato (e non poco!) a risolvere il mio stesso enigma, costruito intorno al tema del treno. Credendo sia troppo difficile, avevo deciso di non riproporlo, ma mia figlia ha insistito. Eterna gloria a chi troverà la chiave (8 lettere)

Voglia di rivalsa

Nec recisa recedit

Non ho mai praticato sport a livello agonistico, insofferente alla figura del maestro e poco attratto dagli impegni gravosi e prolungati, ma ho sempre ammirato gli sforzi e i successi dei grandi campioni. Arroccato sul mio diVano ho seguito le più svariate discipline sportive, maturando una convinzione: le eccessive aspettative riposte nei giovani talenti si rivelano spesso fardelli insopportabili, sotto i quali gli atleti in erba finiscono per soccombere.
Al termine di un ciclo fortunato, o di una brillante carriera, il recordman appende al chiodo la sua attrezzatura e consAcra l’avvio dell’epoca più buia per i giovani esordienti, chiamati immediatamente ad eccellere per soddisfare le attese.

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Ciao Laniakea!

incommensurabile paradiso

Forse ho commesso il mio primo errore da blogger. Dacché mondo world wide web è mondo, il primo articolo di ogni progetto editoriale si intitola “Hello World!”. È benaugurante, brioso, e reca con sé un messaggio di positività e speranza. Toglie l’autore dall’imbArazzo di inventarsi un titolo più accattivante e rompe il ghiaccio con collaudata efficacia.
Ho deciso di rimediare omaggiando la tradizione, ma puntando più in alto. E lo faccio proprio con il naso all’insù.

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